“Il crollo del ponte Morandi”:
la violenza dell’impatto
e le conseguenze traumatiche

“Il crollo del ponte Morandi”:
la violenza dell’impatto e le conseguenze traumatiche

Gli interventi di psicologia dell’emergenza dopo il crollo del ponte.
Racconto di un’esperienza di intervento sul trauma con l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing)

Francesca Tinelli
Premessa

Il lavoro narra l’esperienza di una task force di psicologi e psicoterapeuti intervenuta per affrontare la maxi emergenza legata al crollo del ponte dell’agosto 2018, le cui conseguenze hanno avuto una risonanza nazionale. Duraturi sentimenti di paura e impotenza nelle persone, senso di precarietà e costante preoccupazione per il possibile ripetersi dell’evento, fatto peraltro poi accaduto, ha inevitabilmente minato il senso di sicurezza di individui e comunità.
Su questi vissuti lavora la Psicologia dell’emergenza, che nello specifico si occupa degli interventi clinici e sociali in situazioni di calamità e disastri naturali, in un setting dove le dimensioni spazio-temporali sono stravolte, così come i vissuti emotivi e relazionali connessi. Tra gli strumenti terapeutici applicabili in situazioni di emergenza, riporterò qui la mia personale esperienza di psicoterapeuta che ha lavorato con la tecnica EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), già dimostratasi efficace (Shapiro, 2000) nel prevenire il rischio di sviluppare una psicopatologia negli individui che hanno subito un evento distruttivo di tale portata, grazie alla sua capacità di consentire nella persona traumatizzata dall’evento una rielaborazione adattiva dell’esperienza immagazzinata in maniera disfunzionale, con conseguente remissione dei sintomi del PTSD (Disturbo da Stress Post Traumatico). Nelle situazioni di emergenza, quando un grave evento critico colpisce una popolazione intera, si viene a creare una condizione di elevata emotività che riguarda l’individuo e la comunità. L’evento critico stesso può causare reazioni emotive particolarmente intense: shock, senso di colpa, rabbia, tristezza, vissuti tali da poter interferire con le capacità di funzionare sia durante l’esposizione al crollo /e che in seguito, per tempi diversi e individuali. In altri termini, si possono accusare reazioni intense causate dal crollo del ponte legate a una ferita psicologica, come se fosse una ferita fisica. Obiettivo dell’intervento è proprio quello di avviare e sostenere un processo di ripristino dell’equilibrio psicologico fortemente minato, ridurre e gestire le reazioni da stress post traumatico e aiutare le persone a ricostruire la loro identità individuale, familiare e sociale.
L’esperienza vissuta a Genova insieme a colleghi provenienti maggiormente dalla liguria, mi ha permesso di sperimentare sul campo quanto la relazione terapeutica, costruita nel qui ed ora del dopo crollo, possa diventare un contenitore di vissuti ed emozioni che si muovono al suo interno in modo flessibile e circolare: il gruppo di lavoro e la rete diventano il cuore e la mente del terapeuta e la violenza della natura che travolge la vita distruggendo i legami e i pensieri può così essere affrontata ed elaborata attraverso la ricostruzione di uno spazio mentale sicuro e protetto, nel quale provare ad attribuire un senso a quella violenza improvvisa e devastante. E tutto il lavoro si svolge intorno alle conseguenze, non solo concrete e tangibili, relative alla perdita della casa, dei familiari, del lavoro, degli amici, ma soprattutto psichiche ed emotive, dove ci sono domande che non sembrano poter avere una risposta, dove il proprio sistema di riferimento esistenziale si sgretola e la persona si ritrova a parlarci, a guardarci, con uno sguardo perso in un tempo e in uno spazio sospeso, cui è nostro compito ridare dei punti di riferimento.

L’esperienza traumatica del crollo

Il crollo del 14 agosto 2018 ha causato danni irreparabili sia a livello strutturale che relazionale: case, uffici, negozi e al loro interno le storie delle persone, i loro affetti e le loro abitudini, da quel momento trasformate, spesso cancellate. L’epicentro del ponte Morandi ha colpito una zona della città ma l’impatto si è sviluppato sulla città di Genova che ha ricevuto il colpo di grazia, è stata completamente distrutta: una violenza senza fine, andata avanti per mesi. Il crollo del ponte ha scardinato la vita delle persone, adulti, bambini, anziani, soccorritori inclusi: l’angoscia vissuta fin dall’inizio ha spazzato via la sicurezza della popolazione, la vita si è trasformata, la normalità è diventata cronicizzazione della paura.
Il crollo del 14 agosto ha allarmato la popolazione di Genova poiché molte zone , pur senza vittime, hanno però subito danni strutturali importanti: molte persone sono state sfollate, in alberghi lontano da casa, fino ad arrivare, nell’ultima fase, a nuovi appartamenti. La violenza dell’incuria dell’uomo, ha quindi imposto un cambio radicale di vita: distruggendo i legami delle persone con la loro terra, li ha trasformati in macerie non solo materiali, ma anche e soprattutto emotive, dove profondo è il senso di spaesamento per una terra conosciuta e amata che improvvisamente ha tradito.
Complessi e diversi sono stati i passaggi che la popolazione ha attraversato nell’affrontare l’evento traumatico e le sue conseguenze. Dapprima, confusa e incredula, sembrava non attendere altro che qualcuno che dicesse cosa fare, perciò seguiva in modo rigido e acritico tutte le indicazioni provenienti dall’istituzione, speranzosa di rientrare il prima possibile alla normalità. Se dovessi leggere questo meccanismo di adesione totale, osservando quello stato di assoluta attesa che caratterizzava le persone con cui ho parlato, tenderei a rifarmi al pensiero di Bion (1972), quando parla dell’assunto di base di dipendenza, caratterizzato proprio dalla delega e dall’asservimento ad un ente superiore, in questo caso i soccorritori.
Naturalmente, la popolazione è informata della presenza degli psicoterapeuti dai Medici di Medicina Generale (MMG), dai Servizi Sanitari e da tutto il materiale informativo distribuito a tappeto, ma è fondamentale andare alla ricerca delle persone (outreaching), poiché molti non riescono neanche a pensare di chiedere aiuto, sono troppo terrorizzati e preoccupati per riuscire a fermarsi a pensare di cosa avrebbero bisogno. Avere uno psicoterapeuta che offre loro uno spazio di ascolto e di elaborazione è fondamentale per aiutarli a riprendere in mano la propria vita, soprattutto il fatto che le priorità sono cambiate improvvisamente: in situazione di maxi emergenza, infatti, è come se si dovesse ripartire dalla base della Piramide dei bisogni (Maslow, 2010 metti edizione originale, non sarà il 2010!), avendo la necessità di soddisfare i primari bisogni fisiologici e di sicurezza scardinati dalla nuova condizione di precarietà.

La psicologia dell’emergenza: le vittime

La psicologia dell’emergenza si propone di studiare, prevenire e attenuare il disagio psichico di tutti gli individui coinvolti, più o meno direttamente, in una “maxi-emergenza” (attacco terroristico, guerra, incidente ferroviario e/o aereo, inondazioni, terremoti ecc.), occupandosi della presa in carico degli aspetti psicologici e comportamentali sia delle vittime primarie, sia degli operatori che prestano loro soccorso. Si tratta di una disciplina che studia l’individuo, il gruppo e la comunità in situazioni di crisi. Uno degli obiettivi della psicologia dell’emergenza è quello di supportare in modo specialistico le persone che hanno vissuto delle esperienze traumatiche, sia individuali che collettive. Il supporto psicologico deve essere mirato a stabilizzare nella fase acuta, attenuare le risposte allo stress, mobilitare le risorse delle persone coinvolte, normalizzare e facilitare il recupero della loro funzionalità e fornire un’occasione di valutazione dello stato emotivo delle persone e di eventuali bisogni di follow up. Le persone vengono informate dall’inizio che saranno prese in carico da diversi terapeuti: la stessa persona può essere vista da 4 o 5 psicoterapeuti perché l’organizzazione del lavoro prevede per gli operatori turni di cinque giorni. Le persone possono essere viste anche quotidianamente, oppure ogni due o tre giorni, secondo le loro disponibilità (impegni di lavoro, famiglia, problematiche connesse all’abitazione/attività lavorativa distrutta ecc.), e noi operatori cerchiamo il più possibile di seguire i loro bisogni. In emergenza le necessità cambiano continuamente, se possibile un terapeuta durante la sua permanenza cerca di seguire i casi in carico, in caso contrario vengono passati al collega che si reputa più idoneo. Le cartelle dei pazienti devono essere compilate in maniera precisa e completa per consentire al collega di comprendere al meglio il caso ed è necessario lasciare il proprio riferimento affinché si possa sempre essere raggiungibili, se necessario.
Le vittime coinvolte sono molteplici il livello di coinvolgimento differente. Sono vittime di primo tipo quelle che direttamente subiscono l’impatto dell’evento; sono di secondo tipo i parenti dei superstiti o defunti; le vittime di terzo tipo sono i soccorritori; quelle di quarto tipo riguardano la comunità coinvolta nel disastro; le vittime di quinto tipo sono le persone che per proprie caratteristiche possono reagire sviluppando un disturbo psicologico pur non essendo coinvolte nell’evento (ad esempio qualcuno che legge la notizia sul giornale o vede un servizio alla TV); infine, le vittime di sesto tipo sono quelle di chi avrebbe potuto essere vittima del primo tipo oppure le persone che possono sentirsi coinvolte per motivi indiretti (per esempio una persona che qualche tempo prima è andata in vacanza nello stesso posto dove è avvenuto il sisma, quindi avrebbe potuto trovarsi al posto delle persone che hanno vissuto l’esperienza del crollo del ponte:“avrei potuto essere al suo posto…..ora tutto questo è crollato”).
Quando si parla di eventi catastrofici, di maxi-emergenze, siamo naturalmente soliti pensare alle vittime dirette del trauma, ma un aspetto rilevante riguarda i vissuti dei soccorritori che, come abbiamo visto, vengono annoverati come vittime di terzo tipo. Vigili del fuoco, forze dell’ordine, militari, medici legali e personale medico in generale, insegnanti, ecclesiastici (non dimentichiamo che l’Umbria, Norcia in particolare, è un territorio ricco di religiosità) e volontari che partecipano alle varie attività. La gestione dell’emergenza, infatti, espone a situazioni caratterizzate da grande sofferenza individuale e/o collettiva che, occasionalmente o anche cronicamente, può portare a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico. Nelle situazioni di maxi-emergenza, quando un grave evento critico colpisce una popolazione intera, si viene a creare una condizione di elevata emotività che riguarda l’individuo, la comunità e gli stessi soccorritori, nei quali l’evento critico stesso può causare reazioni emotive particolarmente intense, tali da poter talvolta interferire con le capacità di funzionare sia durante l’esposizione allo scenario che in seguito, per tempi diversi e individuali. Tra le reazioni più comuni, ma mai da sottovalutare, si possono osservare reazioni di stress da sovraesposizione alle richieste (appelli delle vittime, bisogni cui far fronte ecc.); senso di impotenza e inadeguatezza; oppure, all’opposto, vissuti di onnipotenza e incapacità di percepire il limite delle proprie azioni; o ancora, identificazione con le vittime e/o familiari. Le persone che lavorano quotidianamente a contatto con le sofferenze acute, infatti, nonostante sviluppino un’alta soglia di tolleranza agli eventi traumatici, in seguito alla traumatizzazione vicaria possono slatentizzare disturbi psicopatologici. Solitamente vivono il disagio al termine del turno oppure al rientro a casa: possono provare tristezza, colpa, rabbia, paura, confusione e ansia, oppure trovarsi in una condizione di astenia. Possono anche sviluppare reazioni somatiche come mal di testa, disturbi gastro intestinali, difficoltà a distendersi e rilassarsi. Il fatto è che, come si può facilmente intuire, la salute mentale dei soccorritori è fondamentale per le relazioni che essi instaurano con le vittime di primo e secondo tipo, poiché la traumatizzazione vicaria rischia di attivare un disagio ancora maggiore nelle vittime che sono deputati a soccorrere.

La psicologia dell’emergenza: la cura

Un metodo di intervento in psicologia dell’emergenza oggi considerato come il trattamento evidence-based per il PTSD, validato da ricerche e pubblicazioni più di qualunque altra psicoterapia nel campo del trauma e approvato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2013 e dal nostro Ministero della Salute nel 2003, è l’EMDR.
L’EMDR considera tutti gli aspetti di un’esperienza stressante o traumatica: cognitivi, emotivi, comportamentali e neurofisiologici. Questo metodo vede il disagio psicologico conseguente ad un trauma come il risultato di un’informazione, relativa all’evento traumatico, immagazzinata in modo non funzionale: quando avviene un evento traumatico, infatti, l’equilibrio eccitatorio/inibitorio necessario per l’elaborazione dell’informazione viene alterato, è come se l’informazione venisse congelata nella sua forma ansiogena originale, nello stesso modo in cui è stata vissuta. L’informazione così bloccata e racchiusa nelle reti neurali non può perciò essere elaborata, ma continua a permanere provocando una sintomatologia caratterizzata da astenia, irritabilità, disturbi del sonno, iperfagia o ipofagia, ansia e altri disturbi psicologici che spingono poi le persone colpite dal trauma a chiedere aiuto. Attraverso i movimenti oculari (sollecitati dal movimento destra-sinistra del braccio del terapeuta) o il tapping (tamburellamenti alternati sulle mani del paziente), la persona viene accompagnata a rievocare e descrivere il ricordo e l’immagine traumatica associata, con gli annessi cognitivi, emotivi e neurofisiologici. In questo modo si facilita la rielaborazione dell’informazione fino alla risoluzione adattiva, caratterizzata dalla possibilità di utilizzare l’esperienza in modo costruttivo integrandola in uno schema cognitivo ed emotivo positivo.
Gli interventi possono essere individuali e di gruppo: io stessa ho avuto modo di lavorare in diverse occasioni in setting gruppali, per esempio a scuola, sulle singole classi, su richiesta delle insegnanti. Nel dettaglio, l’intervento sul gruppo prevede un incontro rivolto a genitori e insegnanti per spiegare il C.I.S.O. (cosa succede dopo un evento traumatizzante, le conseguenze e gli interventi possibili); poi la somministrazione dei test, differenti per età, l’intervento di gruppo svolto a scuola, per un totale tre incontri; e la somministrazione dei test come follow up al termine del percorso. Inoltre, agli alunni, ma anche agli insegnanti, viene sempre offerta l’opportunità di svolgere colloqui singolarmente se ne sentono la necessità. Un’attività non esclude l’altra.

Conclusioni

“Il concetto di trauma in Freud è la copertina della psicoanalisi. Alla teoria del trauma
corrisponde l’ipotesi che i singoli sintomi scompaiano quando si ridesta il ricordo
dell’evento scatenante risvegliando l’affetto che lo aveva accompagnato perché questo si
esprima in parole… Sotto il nome di <> i personaggi dell’archivio sono già gli
affetti, personaggi addormentati o relegati in un altrove che devono essere svegliati e
fatti parlare. Il concetto di conversione evoca in Freud un fenomeno trasformativo… Chiudi gli occhi e narra, dice Freud. Poiché come il sogno la nevrosi si
basa su un lavoro di trasformazione, questo lavoro deve essere invertito e il sapere
dell’analisi funziona come capacità di convertire i tropi dietro i quali si è rifugiata la
malattia”. (Miglietta pg. 1)

L’esperienza vissuta mi ha permesso di capire cosa significa vivere un trauma collettivo, il terremoto sembra una guerra, in parte lo è, la differenza è che il nemico prima era amico e ci si fidava completamente, una distruzione interna ed esterna, improvvisa, imprevista che non ti aspetti. Ci sono legami tran generazionali con la propria terra, questo ha messo tutto in discussione, le emozioni non avevano più i colori dell’arcobaleno ma si sono trasformate in rabbia, angoscia, paura, tristezza, nulla era più legato. La sensazione prevalente che ho vissuto inizialmente era quella dell’impotenza, di non fare mai abbastanza, dopodiché ho iniziato a capire i movimenti controtransferali, questo mi ha permesso di trasformare il mio vissuto e di vivere il mio ruolo in maniera diversa, sufficientemente aperta alla costruzione di legami disponibili all’ascolto del dolore
Mi sono sentita all’interno di una grande famiglia perché o rivisto volontari, operatori, persone e questo mi ha aiutata a sentire che nonostante tutta la violenza nata dal crollo del ponte, c’era un fine lavoro di tessitura che nel tempo ha “costruito nuovi legami”.
Durante le mie esperienze in emergenza, mi sono resa conto di come il modello psicoanalitico mi abbia permesso di reggere maggiormente allo stress, all’impotenza, la rabbia, ma in modo particolare mi abbia aiutata ad accorgermi, con un continuo lavoro di controtransfert, di quanto sia fondamentale e preziosa la funzione di . L’emergenza, le continue scosse, creano una situazione schizofrenica, gli elementi proiettati sono diretti, improvvisi e imprevisti. La navigazione a vista è base del lavoro, l’organizzazione era continuamente stravolta, come i legami delle persone.
La maxiemergenza sembra una guerra, è stato presente l’esercito italiano, vigili del fuoco, forze dell’ordine, protezione civile. Alcuni legami hanno tenuto, altri si sono spezzati, sono nati nuovi legami ad esempio con noi operatori insieme ai vari soccorritori. Come in tutte le guerre , è presente la morte, la distruzione, elaborare il lutto della perdita inizialmente con la propria terra.. Il trauma acuto non è solo legato alla cornice temporale ma anche al periodo di sicurezza post traumatico, ogni volta che c’era una scossa le persone riattivavano il trauma iniziale.. Penso che nessuno possa avere la preparazione per certi disastri. Penso che la nostra umanità mai dovrebbe sentirsi “pronta” ad affrontare certe cose.
La Klein ribadisce a più riprese quanto sia essenziale per lo sviluppo affettivo e mentale un rapporto solido e soddisfacente con l’oggetto primario. In Invidia e gratitudine scrive: “Credo che la felicità goduta nell’infanzia e l’amore per l’oggetto buono che arricchisce la personalità siano alla base della capacità di godere e di sublimare…Il primo felice rapporto con la madre…mitiga l’odio e l’angoscia”(1957, p.59) E, punto essenziale è anche alla base di una possibile elaborazione della perdita, permettendoci di vivere il dolore in modo costruttivo e creativo. L’elaborazione della perdita, cioè la capacità di conservare il legame anche se l’oggetto d’amore non è più presente materialmente, permette di custodire il valore dell’oggetto d’amore dentro di noi, mantenendo il legame. Mentre l’incapacità di vivere la perdita fa sì che si resti ancorati a un oggetto arcaico idealizzato con cui si ha un rapporto malato e mortifero, che fa sprofondare in una depressione incapace di pensiero e di simbolizzazione. Essenziale è l’elaborazione del lutto, il non rimanere incastrati nel rapporto con un oggetto idealizzato, questa è una perdita violenta e improvvisa. Se non si riesce a vivere l’esperienza del dolore della perdita, si perde anche l’amore.
Una violenza di questo genere ha stimolato la resilienza delle persone, anche la mia ad affrontare e superare un evento traumatico, Genova è diventata un po’ la mia città, ho lavorato in questo per in un arco spazio temporale di sei mesi, ho seguito le loro tappe di vita fino ad arrivare alla separazione, che ho vissuto come una gemmazione di nuovi legami.
La ricostruzione della città consente una ricostruzione interna. Mi colpito vedere le persone che hanno iniziato a rivedere i colori, almeno in parte a ricostruire i legami con la propria terra, alcuni sono scappati altri hanno dichiarato amore per la vita, quindi il legame rotto va ricostruito, insomma ci si può fidare, tenendo ovviamente la giusta distanza. Durante le mie esperienze in emergenza, mi sono resa conto di come il modello psicoanalitico, la mia bussola, mi abbia permesso di reggere maggiormente allo stress, all’impotenza, la rabbia, ma in modo particolare mi abbia aiutata ad accorgermi, con un continuo lavoro di controtransfert, di quanto sia fondamentale e preziosa la funzione di reverie. L’emergenza, le continue scosse, creano una situazione schizofrenica, gli elementi proiettati sono diretti, improvvisi e imprevisti. La navigazione a vista è base del lavoro, l’organizzazione era continuamente stravolta, come i legami delle persone. Personalmente l’esperienza che ho vissuto è stato un percorso personale e professionale di crescita, ho iniziato il mio lavoro senza sapere cosa sarebbe accaduto, un viaggio con i legami a brandelli delle persone che hanno iniziato un po’ per volta ad essere ricuciti e sono diventati un patchwork di nuove storie di vita.

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